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Squid Game 3, il finale spiegato: cosa ci fa Cate Blanchett e cosa succederà alla serie

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Pubblicato il 01/07/2025
Di Team Digital
Squid Game 3 il finale spiegato cosa ci fa Cate Blanchett e cosa succeder alla serie


Dopo tre stagioni di sangue, disperazione e giochi al limite dell’umano, Squid Game è arrivata al capolinea. O almeno così pare. Il finale della serie Netflix che ha fatto scuola – raccontando la discesa agli inferi di centinaia di disperati coreani in cerca di un riscatto economico – non ha fatto sconti. Né ai personaggi, né agli spettatori.


Come finisce Squid Game: la spiegazione del finale


Il creatore Hwang Dong-hyuk sceglie di non offrire giustizia o redenzione. Solo frammenti di pace personale, guadagnati a caro prezzo. Il protagonista Gi-hun (Lee Jung-jae), alias il giocatore 456, muore. Ma lascia alla figlia una somma importante che potrebbe garantire a lei e a sua madre una nuova vita a Los Angeles. Un’eredità che, pur essendo macchiata di sangue, rappresenta una delle poche speranze lasciate in piedi dalla serie.


Anche la cecchina No-eul (Park Gyu-young) si lancia nella ricerca della figlia, probabilmente morta, dopo aver aiutato Gyeong-seok (Lee Jin-wook) a ricongiungersi con il figlio malato. Il detective Jun-ho (We Ha-joon) non riesce a chiudere i conti col fratello In-ho (Lee Byung-hun), ma riesce a localizzare l’isola del massacro. Piccole vittorie in un oceano di sconfitte.


Per il resto, Squid Game si conclude nel segno della rassegnazione e del pessimismo. Nessuna operazione di salvataggio, nessun arresto dei mandanti, nessuna giustizia spettacolare. Solo il silenzio e l’illusione di un sistema che si autoalimenta. Una scelta che riflette chiaramente la visione di Hwang: i potenti restano impuniti, nel mondo reale come nella finzione.


Una chiusura catartica, in stile vendetta, avrebbe forse dato sollievo allo spettatore. Ma non avrebbe rispettato la logica narrativa della serie, che fin dall’inizio ha dipinto un mondo dove i giochi non finiscono mai davvero e la vera prigione è il sistema stesso.


Nella seconda stagione, le rivolte interne falliscono. Nella terza, l’unica forma di resistenza possibile è quella collettiva e disinteressata. Un messaggio che rifiuta il confort narrativo per abbracciare un realismo crudo, al limite del fatalismo. Se esiste un insegnamento, è nei gesti di empatia tra i personaggi, non nella caduta dei loro aguzzini.


La visione di Hwang, sul piano sociale ed economico, è chiara. I partecipanti ai giochi sono spesso spinti oltre ogni limite dalla disperazione, ma il comportamento disumano di molti concorrenti evidenzia un quadro estremo, forse volutamente provocatorio, della natura umana sotto pressione.


Cate Blanchett nel finale di Squid Game: in arrivo la versione USA?


A chiarire ancora di più la portata globale del messaggio arriva, proprio nei minuti finali, la scena più inaspettata di tutta la serie: Cate Blanchett appare in un vicolo di Los Angeles, nei panni di una reclutatrice americana, intenta a giocare a ddakji con un senzatetto. Una scelta che espande l’universo narrativo di Squid Game oltre i confini coreani, suggerendo che il Gioco del Calamaro è solo la punta dell’iceberg di una rete molto più vasta e internazionale.


Nonostante la serie sia profondamente radicata nei temi sociali della Corea del Sud – disuguaglianza, debito, mobilità sociale – Hwang riconosce il carattere universale di certi meccanismi di oppressione, indicando esplicitamente gli Stati Uniti come uno dei nodi centrali del sistema. Il messaggio è chiaro: Jun-ho ha smantellato una cellula, ma ne esistono molte altre. Forse ovunque.


Allo stesso tempo, questa scena finale apre la porta a un possibile spin-off ambientato in America. Un sequel internazionale – magari in lingua inglese – che potrebbe proseguire la storia con nuovi giochi, nuove vittime e nuove ambientazioni. Hollywood ha già dimostrato di non tirarsi indietro quando fiuta un potenziale franchise.


Che un progetto simile sia già in cantiere o meno, il finale della serie gioca su due piani: uno simbolico, legato alla denuncia della disuguaglianza globale, e uno narrativo, che tiene aperta la possibilità di un’espansione futura del brand.


Foto: XX.


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